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La politica delle passioni

La semiotica delle passioni, come altre scienze, s’interessa del mondo emozionale ma individua un suo precipuo oggetto di studio nella forma narrativa di quel mondo. [Sandro Vero]

La politica delle passioni
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13 Marzo 2016 - 05.30


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di Sandro Vero

[right]L’uomo vive in un[/right]

[right]mondo significante.[/right]

[right]Per lui il problema[/right]

[right]del senso non si pone,[/right]

[right]il senso è posto, s’impone[/right]

[right]come un’evidenza,[/right]

[right]come una “sensazione di compresenza” del tutto naturale.[/right]

[right]Algirdas Julien Greimas[/i][/right]

[center]***[/center]

La semiotica delle passioni è una disciplina curiosa: condivide con altre scienze (come per esempio la psicologia e l’antropologia) l’interesse per il mondo emozionale ma individua un suo precipuo oggetto di studio nella forma narrativa di quel mondo, assumendo come regola di ingaggio quella di costruire modelli interpretativi della trama in cui le passioni si dispongono a formare un reticolo di senso, un discorso, fuori dai quali la materia resterebbe di mera competenza della ricerca sperimentale.

Le applicazioni di una tale indagine sono molteplici, tutte collegate dalla comune attenzione per gli aspetti formali della passione, per ciò che la rende racconto, gioco di relazione in un contesto narrativo.

Ciò detto, sembra che si evidenzi un perfetto incastro fra le potenzialità di quella che Greimas ha contribuito a fondare come semiotica strutturale e lo storytelling, questa tecnica sempre più centrale nella costruzione dell’immaginario politico del nuovo millennio, che fa della narrazione la chiave di volta del passaggio dalle ideologie (grandi racconti su vasta scala) allo spettacolo (piccole narrazioni su scale locali).

Assumeremo, come condizione per lo sviluppo della nostra analisi, che le “passioni” in oggetto siano riducibili alla loro definizione comportamentale, qualunque cosa possa significare tale espressione fintanto che si distingua da una definizione fenomenologica, più difficile da trattare mediante la griglia che andremo a proporre.

Tale griglia può assumere la seguente configurazione:

Scegliamo di far interagire due assi emozionali quali quello della “vergogna/non-vergogna” e quello dell’“arroganza/umiltà”, supponendo che tali assi, che nella realtà non sono dicotomici (ovvero: o arroganza piena o umiltà piena) ma continui, incrociandosi diano luogo a quattro aree semiotiche individuate dai numeri corrispondenti a delle forti concentrazioni di senso, qualificanti ognuna una precisa posizione in cui collocare, nel qui e ora dell’attualità politica (ma molto presumibilmente estendibile in senso storico), una compagine partitica.

La prima area, definita dalla concentrazione di senso che diremo – per usare una terminologia di natura psicoanalitica – del passaggio all’azione, caratterizza stati passionali dominati dall’aggressività e dalla violenza (sia pure anche solo verbale), determinandosi dall’intersezione fra l’arroganza e la vergogna, due stati d’animo associati molto più di quanto non si pensi di solito, nel gioco serrato in cui spesso la prima, avendo la funzione di negare la seconda, dalla forza di quest’ultima riceve un effetto moltiplicatore (più ho vergogna e più, dovendo scaricare questa in un agito che mi svuoti di essa, carico la componente dell’arroganza).

La seconda area, definita dalla figura attanziale del manipolatore, caratterizza uno stato dominato da spudoratezza e da una certa tendenza alla maniacalità, generandosi dall’incrocio fra l’arroganza e una proverbiale mancanza del sentimento della vergogna, la quale ultima mancanza rende l’arroganza libera dal vincolo di assumere la forma espressiva altrimenti impostale dall’aggressività.

La terza area, definita dalla nozione di depressione, caratterizza lo stato governato da una certa afflizione, una spiccata tendenza al vissuto di colpevolezza, una propensione a defilarsi e dunque a proporsi come figura attanziale che avoca a sé il ruolo di vittima. La cosa non desta stupore, se si ragiona sull’incrocio da cui origina: la vergogna e l’umiltà, in una miscela implosiva che assegna al suo soggetto un primato di indubbio rilievo, quello di collezionare situazioni di perdita.

La quarta area è infine quella definita da ciò che in psicoanalisi si direbbe l’esame di realtà, possibile solo se la mancanza di vergogna (vale a dire di qualunque sentimento di pena per sé) si accompagna all’umiltà (vale a dire a un rapporto di solidale empatia col mondo). Lo stato dominante è contrassegnato da serenità e affidabilità.

Il gioco delle posizioni, quale quello che si delinea in un’analisi semiotica dei ruoli attanziali previsti dalla semiotica greimasiana, si compie, attraverso la sperimentazione di un’assegnazione: ognuna della caselle individuate dall’incrocio fra i due assi ospiterà un soggetto politico, la cui collocazione sarà semplicemente spiegata dalle caratteristiche della sua prassi, delle “storie” che racconta, delle messe in scena che cura, del linguaggio che adopera.

Questa la sperimentazione che noi proponiamo:

Alcune precisazioni sembrano opportune. L’assegnazione di ogni soggetto nella sua casella, al di là dell’apparente arbitrarietà, è da ricondurre ad analisi non così arbitrarie come si potrebbe essere tentati di ritenere, data la materia.
L’aggressività e la durezza contrassegnano senza dubbio l’azione politica della destra, che in temi quali l’immigrazione e la cessione di sovranità all’UE non ha certo lesinato epiteti e stoccate dure. Sul suo immaginario politico, assimilabile ad un paesaggio segnato da confini e fili spinati, pesa – a parere di chi scrive – il fardello che grava costituzionalmente sul suo pensiero: l’epico equivoco di una concezione del mondo che si autodefinisce ad ogni piè sospinto contro il sistema, anticapitalistica, ma che nei fatti, sempre, ha flirtato col potere delle classi alte, anteponendo la conservazione valoriale alle declarate istanze di giustizia sociale.

La facilità comunicativa, alleggerita dalla mancanza di ciò che prepara al radicamento della vergogna, vale a dire il pudore, abita da tempo il costume politico del Partito Democratico, che pure è stato il partito delle battaglie civili e sociali fino a quando l’antica anima ha avuto diritto di cittadinanza nel nuovo corpo ridisegnato dal lifting renziano. Un’arroganza sorridente, circonvente, depurata di ogni traccia di rabbiosità, e tuttavia pronta a mobilitarsi nei momenti cruciali, si nutre di un costante ricorso alla mitopoiesi di un mondo senza dubbi, centrato sull’adorabilità di un leader, che confeziona storie con la stessa frequenza con cui le contraddice.

La vicenda storica della cosiddetta sinistra è fin troppo nota: mancata l’occasione epocale di cambiare i rapporti di forza nel mondo, testimoniando l’infelice consapevolezza del fallimento di un intero sistema geo-politico con la sciagurata caduta del muro di Berlino (evento che ha segnato il dilagare senza freni né limiti del capitalismo), schiacciata dal peso di una tradizione culturale della quale ha inteso, masochisticamente, liberarsi, ciò che rimane di tutta la forza rappresentativa e coagulante che può ricondursi, direttamente o meno, al pensiero marxiano e socialista, arranca nel tentativo di proporsi come alternativa al rampantismo del PD.

Infine, la forza politica che in questo momento interpreta il bisogno di trasparenza, di linearità, fuori da logiche fatalmente lette come desuete se non anacronistiche (destra/sinistra), lontana dalla dimensione spettacolare della politica (curioso paradosso, date le origini spettacolari del leader), il Movimento 5 stelle, si situa in uno spazio semantico in cui le figure carismatiche che lo rappresentano (Di Maio, Di Battista) appaiono intessute di quei tratti di benigna ingenuità, di capacità messa al servizio di una causa sociale e non personale, di pulizia (ovvero: l’umiltà) che si intrecciano alla sfrontatezza, all’incorruttibilità, all’assenza di qualsivoglia corredo edipico da cui liberarsi (ovvero: la mancanza di vergogna).

Quasi certamente, quanto finora detto apparirà al lettore distratto o frettoloso come una sorta di pronunciamento apodittico, dalle venature dogmatiche, assiomatiche. Niente di più errato.

In realtà, ciò che abbiamo proposto è un tentativo di leggere il quadro politico attuale – probabilmente non solo italiano – mediante una chiave di lettura che centra la sua attenzione sulle caratteristiche narrative delle forze che lo compongono. Dunque, quanto di più lontano da un discorso su ciò che è e molto vicino, invece, ad un discorso sul discorso politico, sulle rappresentazioni e le offerte simboliche, queste ultime oramai da tempo lontane dai grumi concettuali del pensiero novecentesco e più interessate alla dimensione passionale della politica.

Bibliografia

A.J.Greimas e J. Fontanille, Semiotica delle passioni, dagli stati di cose agli stati d’animo, tr.it. Bompiani, Milano 1996.

G.Cosenza (a cura di), Semiotica delle comunicazione politica, Carocci, 2007.

C. Freccero, Televisione, Bollati Boringhieri, Torino 2013.

V. Giacchè, La fabbrica del falso, strategie della menzogna nella politica contemporanea, Derive Approdi, Roma 2008.

C. Salmon, Storytelling, la fabbrica delle storie, tr. it. Fazi, Roma 2008.

*Sandro Vero è psicoterapeuta. Conseguita la laurea in psicologia sperimentale e la specializzazione in medicina psicosomatica, è stato docente a contratto di psicologia della comunicazione per l’Università di Catania. Ha scritto numerosi articoli scientifici e due volumi: Le strutture profonde della comunicazione (Bonanno), e Il corpo disabitato (FrancoAngeli). Giornalista, scrive per alcune testate online e per la rivista di cultura “Le Fate”. I suoi interessi filosofici vertono sui temi della filosofia politica, dell’epistemologia e della logica, del pensiero di Foucault.

L”articolo è uscito il 6 marzo 2016 su [url”Filosofia e nuovi sentieri”]http://filosofiaenuovisentieri.it/[/url] / ISSN 2282-5711.

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