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Sulla soglia tra Psiche e Mondo

Intervista allo psicoterapeuta Pietro Barbetta. [a cura di Paolo Bartolini]

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2 Giugno 2016 - 05.18


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(a cura) di Paolo Bartolini

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Partiamo con una domanda secca: pensa che la psicoanalisi possa ancora ricoprire, sul versante della critica della cultura, un ruolo emancipativo per noi occidentali? O il suo destino è quello di sostenere, suo malgrado, l’individualismo e l’egotismo funzionali al sistema dello spettacolo e delle merci?

Quando penso alla psicoanalisi, mi vengono in mente tante esperienze diverse. In primo luogo, la psicoanalisi “freudiana” istituzionalizzata fino ad alcuni anni fa, quattro volte a settimana per 20 anni. Quella che Michel Foucault definiva: “per coloro che se lo possono permettere, per gli altri ci sono i servizi sociali” (La volontà di sapere), quella di Woody Allen, tanto per intenderci. Nata da una infame storia che vide l”espulsione di Wilhelm Reich perché marxista negli stessi anni in cui si accettò di includere la psicoanalisi “ariana” nel Terzo Reich.

Ma la psicoanalisi è anche e soprattutto altro. Oggi il dialogo tra le psicoanalisi si va aprendo: junghiani, freudiani, bioniani, kleiniani, lacaniani, sistemici (come me), etnopsichiatri, analisti transazionali, gestaltisti, gruppoanalisti, ecc. si confrontano.

Si tratta di affrontare le emergenze: migrazioni, guerre, violenze extra e monofamiliari, questioni di genere e nuovi modelli di famiglia, nuovi sintomi, trattamenti delle psicosi in terapia e nuove sperimentazioni del setting.

Il lettino è obsoleto. Il che non significa che esperienze come quella dell”antipsichiatria (per esempio) abbiano sempre giovato. In primo luogo l”idea che la salute mentale si risolve nel sociale, senza residui relativi al soggetto, fu un grave errore dovuto all”influenza di una sinistra estremista e operaista. L”antipsichiatria considerava il soggetto un “residuo piccolo borghese”, sull”onda della “rivoluzione culturale”.

L”anti-, dell”antipsichiatria, allora era considerato buono, si era confuso il piano clinico con quello della protesta politica, spesso esasperata da vene radicali di tipo intellettuale. Oggi sappiamo che “antagonismo” è “identificazione col nemico”, come nella logica amico/nemico di Carl Schmitt, che, forse non per caso, piaceva a molti “teorici” della sinistra italiana. Gente che aveva confuso Deleuze con Lenin.

Dott. Barbetta, la sua esperienza clinica va di pari passo con un interesse trasversale per gli sviluppi della società contemporanea. Può descrivere se e in che modo, all’interno della stanza di analisi, l’incontro tra pazienti e terapeuta assume una valenza “politica”?

Nell”etnoclinica la cosa è abbagliante, assordante. Solo un “professionista” cieco e sordo potrebbe disinteressarsi alla questione politica in quelle circostanze. Racconti di guerra, tortura, stupro, pulizia etnica, corpi marchiati, segnati, claudicanti, emaciati, feriti, addolorati; soprattutto nei dispositivi di cura dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Prima, in misura e forma differente, la discriminazione razziale e sociale contro le famiglie migranti, nascosta sotto il velo della normalità burocratica, che non riconosce permessi di soggiorno, titoli di studio, competenze.

Questo è diventato evidente anche nel “nostro” mondo. Se un paese come l”Italia spinge le persone verso il gioco d”azzardo, invece di limitarlo, allora siamo di fronte a una distorsione grave della democrazia, a una dittatura del libero mercato e dell”imbroglio. Alcuni dicono che non si può mettere sullo stesso piano il gioco d”azzardo con i cosiddetti “traumi di guerra”. Sono d”accordo: là si tratta di gun-machines, qui di slot-machines. Entrambe uccidono. Le prime in modo diretto, le seconde attraverso lo sperpero familiare, la cancellazione del rispetto, la dipendenza, la scomparsa degli affetti.

Come possono la psicoanalisi, la psicologia, la psichiatria non occuparsi di questo? Come possono gli psicoanalisti, gli psicologi, gli psichiatri vedere quotidianamente questi disastri psicosociali e dormire nei loro letti senza esplorare nuove forme d”intervento, nuovi dispositivi di cura? Nuove forma di opposizione al “nuovo che avanza”? Non le pare osceno tutto ciò?

C’è ancora spazio, a suo avviso, per il desiderio dissidente ai tempi del conformismo di massa? Nei racconti dei suoi pazienti intravede qualche traccia di un desiderio irriducibile al deprimente e ubiquitario caleidoscopio delle voglie?

Quando parlo dei nuovi sintomi, e anche dei vecchi, io non penso che le persone che frequentano le sedute terapeutiche siano “responsabili” dei sintomi che si portano dietro, né direttamente, né attraverso qualsiasi tipo di inconscio strutturale interno al soggetto.

Mi piace sempre raccontare che Freud scoprì l”inconscio dentro al soggetto, e lo chiamò sovra determinazione, e Bateson lo esternalizzò parlando di ecologia della mente. Trovo fecondo quello sguardo antropologico che parla di ontological turn, svolta ontologica. Il soggetto è una trama di relazioni che lo condizionano e che condiziona a sua volta.

Sfido qualsiasi psicoanalista che non dà il numero di cellulare ai suoi “analizzand(t)i”, che non scambia mail, che non usa mai skype, che non si adegua alle condizioni della vita quotidiana contemporanea a non scadere in un moralismo che poco ha a che fare con le origini del nostro lavoro. Queste sono le condizioni della vita in cui siamo immersi e non possiamo tirarcene fuori sollevandoci per un codino baronale.

I racconti delle persone che frequentano le sedute sono sempre affascinanti, se fossi capace, scriverei per ognuno dei racconti un romanzo. Ho sempre avuto grande rispetto e affetto per i soggetti che frequentano la terapia, non capisco chi fa clinica scrivendo cose terribili contro gli “psicotici” e gli “autistici”, continuo a vedere alcolisti alle prese con la loro amante bottiglia, con il loro bicchiere che è sempre il penultimo, che non riescono mai a smettere di smettere di bere (Bateson e Deleuze), continuo a vedere “meravigliose digiunatrici” (Cecchin), senza disprezzo, con rispetto e curiosità. Le voglie per me vanno istoriate, fanno parte di un ancestrale discorso antropologico, sono dei marchi nella carne, dei segni sulla pelle, non si possono cancellare, possono però diventare segni dell”esperienza, insegne di saggezza.

La nostra sensazione è che – per dirla con Ernesto De Martino – si stiano moltiplicando in Occidente i segnali di una drammatica “crisi di presenza” collettiva e individuale. Il mondo che abbiamo a lungo abitato non è l’unico né il migliore, anzi appare oggi come uno dei molti possibili, forse il più insensato a fronte del disastro ecologico e antropologico innescato dal capitalismo globale. Cosa possiamo imparare da culture e cosmovisioni diverse dalla nostra?

I mondi multipli che incontriamo ci insegnano a uscire da quella piccola provincia che è l”Europa. Dante lo racconta con Ulisse e Primo Levi lo riprende con quel “misi me oltre”, che non è “mi misi”. Si tratta di prendere posizione. Quando Ulisse dice “per seguire virtù e conoscenza”, non intende qualcosa di cognitivo, non si tratta di “consapevolezza accademica”, si tratta di attraversare l”esperienza, quella cosa che gli psicoanalisti “per bene” chiamano “passaggio all”atto” e che li spaventa tanto. Se non altro perché passare all”atto significa uscire dal setting per vivere la vita, ma su questo argomento è eloquente la riflessione di Elvio Fachinelli intorno al denaro dello psicoanalista.

Quando Oswald De Andrade scrisse il Manifesto antropofago, aveva qualcosa da insegnarci. Freud parla dell”identificazione come di un processo cannibalico. Ebbene per i Tupami questo cannibalismo è un gesto d”amore, è una metafora di come il Brasile ha trasformato la cultura coloniale, se ne è appropriato per inventare il mondo nuovo: “Tupy or not Tupy” recita De Andrade. Si tratterebbe di andare laggiù, ogni tanto, a vedere come Freud, Winnicott, Basaglia, Foucault sono stati trattati, sono diventati fonte di proliferazione di nuove idee e non piccoli culti appannaggio di piccoli coltivatori iper-esperti.

E infine: quale posizione ricopre attualmente, sul versante teorico e applicativo, il concetto operativo di inconscio una volta inserito all’interno di coordinate sistemiche-relazionali? E’ possibile una cura del disagio mentale che si appelli alla dimensione del “profondo” proprio oggi che gli uomini sembrano diventati piatti come gli schermi che fissano molte ore al giorno?

Da Nietzsche a Foucault (pensi alla magistrale descrizione di Las meninas di Velazquez nella prima parte di Le parole e le cose), ciò che si nasconde sta sotto i nostri occhi, in superficie. L”inconscio sta tutto lì davanti a noi, solo che noi “non vediamo ciò che non vediamo”. Recentemente un giovane uomo proveniente da una zona africana racconta di essere stato ucciso due volte. La prima a botte dai ribelli per essersi rifiutato di sottomettersi a imposizioni sul suo corpo, la seconda per essere stato ucciso nel suo letto dall”esercito quando fu costretto a entrare nelle zone dei ribelli e a diventare uno di loro per trovare lavoro. Solo che lui, in quel momento, non era nel suo letto. Sembra che abbia le virtù del cacciatore, che si rende invisibile alla preda, così come la preda si rende invisibile al cacciatore. La prima volta fu un cacciatore a salvargli la vita, trasportandolo, quasi morto, dalla foresta all”ospedale. Parlando di caccia, racconta che suo padre era cacciatore, ma che gli aveva interdetto l”accesso al sapere dei cacciatori, pieno di demoni e di jiin pericolosi. Eppure si è salvato anche la seconda volta. Penso con lui che a volte noi non sappiamo di sapere. Sappiamo qualcosa, ma non sappiamo di saperlo. Il paradosso che emerge è che non è necessario diventare consapevoli di questo sapere. Infatti se so di sapere, è inevitabile che perderò il sapere che non conosco, e morirò.

Ecco un esempio di inconscio: ora che so di non sapere ciò che so, meglio che non indaghi oltre, perché se scopro che so quel che non so, metto a rischio la mia esistenza e muoio. Se so che sono invisibile, allora cerco circostanze in cui posso esserlo, mi metto a rischio. In quel preciso istante perderò la mia invisibilità e verrò ucciso.

Quel che insegna l”approccio sistemico-relazionale è che l”inconscio è un sistema. L”interiorità si coniuga con l”esteriorità. L”invisibilità è originaria, perciò non funziona quando la voglio usare in modo consapevole, c”è quando non ne ho coscienza, sta nell”inconscio. Essere vivente, piuttosto che essere parlante. Lì, tra l”interno e l”esterno, vive il soggetto.

Pietro Barbetta è Direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, insegna Teorie psicodinamiche all’Università di Bergamo, membro di World Association for Cultural Psychiatry (WACP) e di International Society for Psychological and Social Approach to Psychosis (ISPS), tiene seminari presso altre Scuole di specializzazione in psicoterapia a orientamento psicoanalitico e sistemico. Ha lavorato in vari paesi europei, nord e sudamericani. Ha curato Le radici culturali della diagnosi (Meltemi, Roma) e, con Enrico Valtellina, Louis Wolfson. Cronache da un pianeta infernale (manifestolibri, Roma). Ha scritto Anoressia e isteria (Cortina, Milano), Figure della relazione (ETS, Pisa), Lo schizofrenico della famiglia (Meltemi, Roma), I linguaggi dell’isteria (Mondadori Università, Milano), Follia e creazione (Mimesis, Milano), La follia rivisitata (Mimesis, Milano).

Infografica: © Giorgio de Chirico, Archeologi, 1968, Fondazione Giorgio e Isa de Chirico (Roma).

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