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L'attacco alla Siria per rianimare alleanze a pezzi

A giudicare dall’operazione di mediamenzogne in campo sulla Siria, forse assisteremo al consueto scenario di un intervento militare congiunto per “fini umanitari”.

L'attacco alla Siria per rianimare alleanze a pezzi
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25 Agosto 2013 - 16.08


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di Sergio Cararo

A giudicare dall’operazione di
mediamenzogne messa in campo sulla Siria, c’è da ritenere che ben
presto assisteremo al consueto scenario di un intervento militare
congiunto per “fini umanitari”. Ci sono degli ostacoli che
potrebbero essere superati come avvenne per l’aggressione alla
Serbia nel 1999 dopo una campagna mediatica molto simile sui profughi
kosovari, le fosse comuni, le atrocità etc etc. L’Onu infatti
potrebbe non essere utilizzabile per legittimare l’aggressione alla
Siria viste le posizioni di Russia e Cina che vi si oppongono. Contro
la Serbia si utilizzò unilateralmente la Nato anche senza il mandato
dell’Onu ed anche in questa occasione la strada potrebbe essere
simile.

Tre domande si pongono e
richiedono risposte che ben presto dovranno diventare iniziativa e
tema di confronto

Perché questa accelerazione
dell’escalation contro la Siria?

 Sulla prima questione è
evidente come ormai, dopo anni di interventi di destabilizzazione
imperialista sistematica, il Medio Oriente stia saltando
completamente e con esso stanno saltando anche i precedenti sistemi
di alleanze. Il famoso “Arco di crisi” indicato da Brzezinski è
stato volutamente destabilizzato dagli interventi militari
statunitensi, israeliani e adesso anche europei. L’Iraq è diviso e
dilaniato al proprio interno (come teorizzato dall’analista
israeliano Oled Ynon già dai primi anni ’80).

I regimi autoritari non islamici
sono stati bruscamente sostituiti in Libia, Tunisia, Egitto ma non
ancora in Siria.

I palestinesi sono stati divisi
in due entità distinte e spesso contrapposte (Hamas e Al Fatah) tra
Cisgiordania e Gaza. I contrasti si sono estesi poi anche alla rete
dei campi profughi in Libano e Siria.

In Libano attentati e scontri
stanno facendo saltare i fragili equilibri raggiunti negli anni più
recenti tra la componente sciita e quella sunnita.

La Turchia sta rinculando dopo
anni in cui ha cercato con ogni mezzo di diventare una potenza
regionale di riferimento in alternativa alle ingerenze dell’Arabia
Saudita.

Le petromonarchie del Golfo hanno
separato le loro ambizioni con l’Arabia Saudita (che ha fomentato
il jihadismo in ogni teatro in cui era stato richiesto dagli Usa) che
guarda ai suoi interessi e il Qatar (potenza emergente) che guarda ad
altri interessi.

La Giordania appare come il
classico vaso di coccio che sa di non poter più campare di rendita
con le garanzie che in questi decenni ha offerto a Stati Uniti ed
Israele.

Ad acutizzare questa
divaricazione di ruoli e alleanze storiche è venuta la crisi in
Egitto che ha frantumato tutte le alleanze pre-esistenti e stenta a
definirne delle nuove, alimentando così uno scenario di
destabilizzazione permanente in tutta la regione. Turchia, Iraq e
Qatar sono contro i militari e il nuovo regime egiziani mentre Arabia
Saudita e Israele sostengono il colpo di stato dei militari e la
messa fuorilegge dei Fratelli Musulmani. Alla divisione storica
dell’Islam tra sunniti e sciiti si aggiunge uno scontro durissimo
dentro il mondo sunnita, alimentato probabilmente dai Guardiani della
Mecca (i wahabiti dell’Arabia Saudita) che hanno fatto dei salafiti
la loro longa manus contro gli altri competitori.

 Sarebbe piuttosto miope
leggere questa esplosione del Medio Oriente sulla base del brutto
carattere degli arabi e della doppiezza. Certo, la spregiudicatezza
nelle alleanze e i loro repentini cambiamenti stanno ben entro la
storia recente del Medio Oriente. Ma è innegabile che in tale
scenario abbiano influito le ingerenze e adesso il logoramento
dell’egemonia imperialista degli Stati Uniti. In questo tutti
contro tutti, l’unico elemento che sembra poter ricomporre le
vecchie alleanze – almeno temporaneamente – è l’attacco contro
la Siria. Bombardare Damasco e destabilizzare il governo di Assad è
l’agnello sacrificale che può rimettere insieme Stati Uniti e
Turchia, Qatar e Arabia Saudita, Israele e le vecchie potenze
coloniali dell’area come Francia e Gran Bretagna.

Lo scossone che è arrivato
dall’Egitto ha fatto saltare parecchi equilibri e compromessi
precedenti. Rimetterli insieme attraverso il “nemico comune”
della Siria” può essere la carta – parecchia disperata però –
per cercare di rimettere una pezza sui numerosi strappi in Medio
Oriente. Che il gioco riesca è tutto da dimostrare, a partire dalla
convergenze e divergenze su chi dovrebbe sostituire Assad. Gli esempi
che vengono dai risultati delle aggressioni militari in Iraq e Libia
non sono certo confortanti.

Perché gli Stati Uniti non
riescono più a far quadrare i loro interessi nella regione?

Gli Usa in Medio Oriente
(sollecitati in questo da Israele) hanno agito per frammentare,
dividere, contrapporre, destabilizzare l’area. L’idea
statunitense è stata sempre quella di sentirsi talmente forti da
poter gestire la instabilità che si veniva a determinare, preferenda
questa – la destabilizzazione – ad una stabilità e
consolidamento delle relazioni all’interno dei paesi arabi e
islamici. A dieci anni di distanza viene da chiedersi quale siano
stati i risultati ottenuti con l’attacco e l’invasione dell’Iraq
o della Libia. Il buon senso direbbe che la situazione precedente
assicurava sicuramente maggiore stabilità mentre oggi si è
convertita nel suo esatto contrario. In realtà i centri decisionali
dell’imperialismo – negli Stati Uniti in particolare – devono
sempre trovare una sintesi tra i vari interessi dominanti in gioco.
Sono questi poi a determinare le scelte delle varie amministrazioni
presidenziali, repubblicane o democratiche che siano. In alcune fasi
prevalgono alcuni interessi (industria bellica, petrolifera etc.) in
altre ne prevalgono altri (finanza, industria etc).

Dentro la crisi di sistema che si
andava delineando piuttosto nitidamente (i giornali della mattina
dell’11 settembre 2001 dedicavano le loro prime pagine alla crisi,
poi ci sono stati gli attentati), la sintesi tra interessi
capitalisti divergenti e prevalenti è diventata molto più
difficile, sempre più difficile e i centri decisionali hanno
cominciato a riempirsi di “apprendisti stregoni” che pensavano –
come in passato – di poter gestire la lotta al terrorismo jihadista
insieme all’alleanza con alcune correnti dell’Islam politico, di
poter agire in Iraq prima con gli sciiti e poi contro gli sciiti con
repentini cambi di alleanza, di poter armare la Jihad in Libia e in
Siria come fecero in Afghanistan, Cecenia, Jugoslavia e per poi
abbandonarla di nuovo, di poter continuare ad essere arbitri unici di
un negoziato tra israeliani e palestinesi che tutti percepiscono come
inutile e inesistente.

Il problema è che venti anni fa
gli Stati Uniti avevano l’egemonia mondiale dopo la dissoluzione
dell’Urss. Venti anni dopo lo scenario è cambiato. Sono in tanti
nel mondo a percepire che l’egemonia globale statunitense segna il
passo, che altri soggetti stanno emergendo, che l’alleanza servile
con Washington non è sempre la scelta migliore perché gli Usa hanno
la brutta abitudine del dio Saturno: mangiano i propri figli per
paura che diventino troppo forti.

Quando
il generale egiziano Al Sissi fa di testa sua nella repressione delle
piazze nonostante le 15 telefonate del segretario del Pentagono che
pretendevano una scelta diversa, è il segno che qualcosa sta
cambiando. Quando la minaccia della sospensione dei finanziamenti
annuali all’Egitto diventa un’arma spuntata perché gli sceicchi
di Riad promettono il triplo di quello che arriva dagli Usa, è un
segnale rilevante. Quando gli Usa non sono riusciti a convincere
nessun partner regionale ad investire sulla loro pipeline “Nabucco”
per gestire le rotte di gas e petrolio che arrivano nel Mediterraneo,
è un sintomo importante. Difficile dire se lo scenario sarà meglio
o peggio di prima ma sta cambiando. Il problema semmai è che il
cambiamento sarà violento, tumultuoso, per moltissimi aspetti
indecifrabile secondo le categorie imperialismo-antimperialismo,
alleati-nemici, progressisti-reazionari,
oppressione-autodeterminazione dei popoli. Il declino di una potenza
egemone come sono stati gli Usa in Medio Oriente non può che
generare una fase di devastante instabilità, di cambiamenti di
alleanze, di scontri e repentine tregue. Un nuovo equilibrio nascerà
da un periodo di grande caos.

Perché i partiti
della sinistra, i movimenti, le reti pacifiste da anni hanno perso la
bussola ed hanno rinunciato a prendere iniziative contro la guerra
permanente?

Infine, ma non per importanza, le
osservazioni di cui sopra agiscono anche sulla soggettività delle
forze che pure in questi anni si sono opposte alle guerre, alle
invasioni, agli interventi militari mascherati da guerre umanitarie
etc. Questa soggettività in parte si è dissolta e in parte si è
“arruolata”. La dissoluzione ha investito sia le forze in qualche
modo ancorate ad una logica “campista” tra imperialismo e
antimperialismo che alla fine ha visto prevalere una chiave di
lettura tutta geopolitica piuttosto che di classe (aprendo così una
breccia al più consolidato armamentario teorico della destra in
questo campo). La dissoluzione dell’Urss non poteva che aprire
questo tipo di falla non solo sul piano delle relazioni
internazionali ma anche sulla capacità politica e teorica di leggere
la nuova fase storica e di collocarvi la propria iniziativa. Prima
sulle Primavere arabe e poi sulla Libia, sulla Siria e sull’Egitto
abbiamo assistito a sbandamenti impressionanti e sintesi frettolose.
Lì dove sarebbe prevalere la capacità di coniugare maggiore cautela
nell’analisi delle forze in campo e irrinunciabilità dello
schieramento contro le aggressioni militari delle potenze della Nato,
abbiamo invece verificato un gettarsi nella mischia che ha
polverizzato – esattamente come in Medio Oriente – i
posizionamenti precedenti.

Una lettura schematica dell’Islam
politico (che invece è un fenomeno molteplice e complesso) è spesso
sconfinata in una forma di islamofobia alimentata dai circoli della
sinistra “politically correct”, esattamente come una eccessiva
indulgenza verso le forze islamiche in funzione antimperialista ha
impedito di leggerne il repentino – ma pur visibile – cambiamento
di alleanze di molte di esse con l’imperialismo Usa stesso. Abbiamo
visto compagni e studiosi stimabili apprezzare l’intervento dei
militari in Egitto contro il governo dei Fratelli Musulmani, ritenuti
come il nemico principale. Una posizione che sul campo ha una sua
logica ma che rimuove completamente il ruolo dell’imperialismo
nell’area e gli effetti della sua destabilizzazione “creativa”.

Marx diceva che non dobbiamo
“mettere le braghe al mondo”, ma il tentativo di ricostruire un
punto di vista internazionalista su quanto sta accadendo in Medio
Oriente va perseguito seriamente e senza la pretesa di arrivare
subito ad una sintesi spendibile perché questo, oggi e per un lasso
di tempo non irrilevante, non appare assolutamente possibile.

L’unica cosa certa – e su
questo non possiamo sottrarci e forse dovremo scontrarci – è
l’urgenza di una chiara presa di posizione contro l’aggressione
militare alla Siria. Alla luce di quanto abbiamo visto in questi anni
sulla Jugoslavia, l’Iraq, la Libia etc riesce davvero difficile
accettare che qualcuno si lasci ancora irretire dalle campagne per le
guerre umanitarie.

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