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Il capitale secondo Thomas Piketty

«Quand’è ereditata, la disuguaglianza, non solo deprime l’efficienza del sistema, indirizzando le energie degli individui in direzioni improduttive, ma entra in contraddizione con la democrazia». [Marco Codebo]

Il capitale secondo Thomas Piketty
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1 Luglio 2014 - 16.16


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di Marco Codebo

“Le differenze sociali non possono fondarsi che sull’utilità comune”: è con questa citazione dalla Dichiarazione dei diritti del 1789 che Thomas Piketty inizia Le capital au XXIe siècle (Seuil, 2013), il suo studio sugli ultimi due secoli e mezzo di disuguaglianza sociale. Nel corpo dell’opera lo spirito illuminista dell’incipit è confermato dalla volontà dell’autore di rintracciare un filo razionale all’interno della storia economica, dal rigore con cui costringe sempre l’analisi a misurarsi col dato statistico e soprattutto dalla tensione divulgativa che impone al libro, nella convinzione che condividere il sapere generi una cura più attenta del bene comune.

L’ultimo punto si traduce nell’impianto narrativo che sorregge il testo. Le capital au XXIe siècle fornisce al lettore un’imponente quantità di informazioni (provenienti quasi tutte dai paesi ricchi dell’Occidente, soprattutto Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti), senza però schiacciarlo sotto il peso di una scienza arida e lontana: ci riesce perché il libro è strutturato come un racconto, con una voce narrante, quella paziente ed esplicativa dell’autore, un protagonista, la disuguaglianza, ed una trama che si snoda lungo il filo degli anni che ci separano dalla rivoluzione industriale.

Il contesto ideologico in cui si riconosce Piketty è quello che segue il crollo delle società comuniste dell’Europa Orientale: dopo il 1989 né il marxismo né la critica aprioristica del capitalismo possono produrre gli strumenti intellettuali per affrontare l’ineguaglianza economica. Questo compito tocca invece a una ricerca storico/economica che lavori sulla longue durée, così da individuare le tendenze profonde del capitalismo e comprenderne i possibili sviluppi.

Nella storia della disuguaglianza il Novecento è l’anomalia. Si tratti del rapporto fra capitale privato e reddito nazionale annuo, dell’ammontare complessivo dei patrimoni privati, della ripartizione della ricchezza fra il 10% più ricco ed il resto della popolazione, quando si guardano le tabelle statistiche dei paesi ricchi si scopre lo stesso andamento: la curva della disuguaglianza tocca il punto più alto nel 1914, da lì crolla fino al 1945, rimane costante per un trentennio, riprende a salire dopo gli anni Settanta e tocca oggi livelli vicini a quelli della Belle Époque. L’Ottocento, al contrario, presenta un andamento del tutto lineare: di pari passo con l’accumulo del capitale, il pendio della disuguaglianza sale regolarmente fino a raggiungere il suo massimo alla vigilia della Prima guerra mondiale.

Piketty spiega la crescita della disuguaglianza con il lavorio profondo di una legge fondamentale del capitale, espressa nella formula r > g: “il rendimento del capitale è più alto della crescita (demografica ed economica)”.

Sul lungo periodo i dati dicono che a un rendimento r attestato di regola fra il 4 e il 5% corrisponde una crescita g che va dall’l al l.5%. Periodi di crescita più alti, come in Europa occidentale nel Secondo dopoguerra o in Cina negli ultimi quindici anni, si verificano solo in momenti storici unici, quando un’area del pianeta si trova a colmare in fretta il distacco che la separa dalle zone forti dello sviluppo. Nel racconto di Thomas Piketty [i]r > g[/i] assume i tratti di una forza cieca, il fato dei moderni. Fatte salve circostanze eccezionali che deprimano il rendimento del capitale, guerre mondiali, rivoluzioni, depressioni catastrofiche, l’unico antidoto a r > g è una forte crescita, che moltiplicando le occasioni di reddito riduca il peso relativo dei patrimoni accumulati all’interno della ricchezza complessiva.

La caduta della disuguaglianza nei decenni centrali del Novecento non si spiega però solo con le distruzioni di capitale causate dalle due guerre e dalla crisi del ’29 o con la crescita impetuosa del secondo dopoguerra. Le politiche fiscali dei governi giocano, a questo proposito, un ruolo chiave.

Le statistiche riguardanti l’imposta progressiva sul reddito, un’invenzione novecentesca, seguono una progressione opposta a quelle della disuguaglianza: la curva delle imposte si alza dopo il 1914, si stabilizza su un livello alto alla fine della Seconda guerra mondiale, cala fra il 1980 e il presente. Il rivoluzionario risultato sociologico delle anomalie del Novecento è la classe media proprietaria, un unicum nella storia economica del pianeta, che appare solo nei paesi occidentali dopo la Seconda guerra mondiale. Fino ad allora, in tutte le società della storia, sia in quelle capitalistiche prima del 1945, sia in quelle dell’epoca pre-statistica (qui però l’analisi lavora su dati più impressionistici), l’accesso alla proprietà era stato riservato al 10% più ricco che era padrone del 90% del patrimonio nazionale. Il rimanente 90% della popolazione si spartiva le briciole. Nella seconda metà del ‘900 in Occidente, invece, a fronte di un 50% più povero che rimane escluso dalla proprietà (gli spettano il 10% dei patrimoni privati) e a un 10% più ricco che è proprietario del 60% della ricchezza nazionale, emerge uno strato intermedio, pari al 40% della popolazione, che ne possiede il 30%.

Dopo il 1980, a causa dell’inversione di tendenza nelle politiche fiscali e nelle pratiche distributive dello stato sociale in Europa occidentale e negli Stati Uniti, r torna ad accelerare la sua crescita rispetto a g; di conseguenza, nelle società dei paesi ricchi, il rapporto fra il totale dei patrimoni privati e un anno di reddito nazionale risale verso i valori di 7 a 1 che erano propri dell’inizio del Novecento. Questo quadro non dovrebbe cambiare nel XXI secolo. Lo squilibrio fra r e g tenderà anzi a rafforzarsi a causa di una crescita strutturalmente bassa, intorno all’1% secondo le previsioni di Piketty: ci attende quindi un’ulteriore crescita della disuguaglianza.

Come ha chiarito all’inizio del suo lavoro, Piketty, non crede alle società ugualitarie. Allora, cosa c’è che non va nella disuguaglianza? Non è forse, in quanto misura delle capacità degli individui, il tratto forte del capitalismo, la ragione ultima del suo successo? Il fatto è che esistono due disuguaglianze, una buona, che discende dal merito, e una cattiva, prodotta dall’eredità.

Per chiarire il concetto, invece di ricorrere alla statistica, in coerenza con un testo che usa sistematicamente il romanzo (Austen, Balzac, James) come fonte storica, Piketty lascia la parola a un personaggio balzacchiano. Si tratta di Vautrin, che in un passo di Le Père Goriot spiega a Rastignac come non debba cercarsi una professione di successo per far fortuna, ma trovarsi un’ereditiera da sposare.

Vautrin, sostiene Piketty, ha ragione: in una società in cui i patrimoni ereditari sono diventati più importanti di quelli creati con il lavoro e il risparmio non vale la pena di darsi da fare. Così le capacità di un giovane ambizioso come Rastignac si sprecano nel salotto di Delphine de Nucingen. La società in cui non val la pena di lavorare è quella logorata dall’azione di r > g, dal fatto che prolungati periodi di alti rendimenti del capitale e crescita limitata hanno creato un accumulo smodato di patrimoni destinati alla rendita e alla trasmissione ereditaria. La logica di [b]r > g vuole che l’imprenditore, o durante la sua vita o in quella della generazione seguente, si trasformi prima o poi in rentier[/b]: di qui la verità del discorso di Vautrin. A parte periodi di choc, come quello dal 1914 al 1945, la struttura naturale delle disuguaglianze porta al dominio dei rentiers sui quadri.

Quand’è ereditata, la disuguaglianza, non solo deprime l’efficienza del sistema, indirizzando le energie degli individui in direzioni improduttive, ma entra in contraddizione con la democrazia. L’uguaglianza dei diritti può convivere con la disuguaglianza dei patrimoni solo se quest’ultima è giustificata da principi razionali e serve al bene comune. In caso contrario si presentano situazioni potenzialmente esplosive come quella presente, in cui l’1% più ricco della popolazione del pianeta possiede il 50% del capitale mondiale (10% del PIB del mondo sfugge inoltre ai rilevamenti perché custodito in paradisi fiscali).

L’accumulo eccessivo dei patrimoni privati non è però frutto di errori del mercato, ne rappresenta anzi il prodotto inevitabile proprio in presenza di un corretto andamento del sistema. Se questo è il problema, la soluzione non può essere che politica. Piketty propone un uso a fini egualitari della leva fiscale: un’imposta mondiale progressiva sui patrimoni privati che serva, non tanto ad accrescere le entrate degli stati, ma a ristabilire la trasparenza nella creazione e nella circolazione internazionale dei capitali. L’obiettivo è ridare all’autorità pubblica gli strumenti per mettere sotto controllo il capitalismo, senza danneggiare il funzionamento virtuoso della proprietà privata e della concorrenza.

La proposta di una nuova fiscalità su scala planetaria è discussa nella quarta e ultima parte di Le capital au XXIe siècle, senz’altro la meno convincente. Come riconosce lo stesso Piketty, l’imposta mondiale progressiva sul reddito è un’utopia. Non si vede né quale autorità internazionale sarebbe in grado di imporla in un futuro prossimo, né come quest’autorità potrebbe colmare il distacco, in termini d’informazione e conoscenza, che oggi separa qualsiasi potere pubblico dalle multinazionali della finanza.

Piketty ribatte che anche l’imposta progressiva sul reddito sembrava un’utopia all’inizio del ‘900, il che non ne ha impedita l’adozione anche in forme confiscatorie (nel 1944, ad esempio, gli Stati Uniti stabilirono un’imposta del 94% sulle fasce più alte degli imponibili). Qui però, mentre Piketty assume il ruolo del poeta disarmato, emergono i limiti di un’analisi puramente economica che ignora il conflitto come agente di mutamento: le scelte politiche non sono il prodotto di asettici dibattiti ma dallo scontro fra forze sociali. Se gli anni centrali del Novecento sono un’epoca egualitaria, c’entreranno ben qualcosa la Rivoluzione d’ottobre, il boom della militanza sindacale negli Stati Uniti degli anni trenta, il New Deal come uscita a sinistra dalla crisi del ’29 e la vittoria della Resistenza antifascista nel ’45?

Al contrario, la presente esplosione della diseguaglianza, dipenderà sì dal funzionamento di alcune leggi fondamentali del capitale, ma anche dallo smembramento delle attività produttive nelle metropoli capitalistiche, dal loro trasferimento in paesi dalle strutture politiche autoritarie, da una serie di sconfitte sindacali chiave negli anni ’80 e da un generale arretramento dei diritti del lavoro; e in più da un clima di opinione, qualcosa che si respira nell’aria, che guarda con ostilità all’uguaglianza e adora il successo individuale. Si tratta, in entrambe le situazioni, di lotta fra gruppi sociali: condotta con successo, in estrema semplificazione, dai poveri contro i ricchi nel primo caso e dai ricchi contro i poveri nel secondo.

Le capital au XXIe siècle ci porta fino all’estremo limite dove può condurci il discorso dell’economia. Ci mostra l’enormità dei problemi del presente, alla maniera di un grande punto di domanda che lascia gli interlocutori ad annaspare in cerca di risposte. Non è poco. Non possiamo chiedere a Thomas Piketty di mostrarci anche i soggetti che in un futuro accettabile possano provare a prendersi cura del mondo in una maniera non subordinata alla grande finanza. Il fatto che leggendo Le capital au XXIe siècle si arrivi a capire quanto bisogno ci sia di una soggettività che affronti la disuguaglianza dal punto di vista dei disuguali è il merito più significativo del libro.

(1 luglio 2014)

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