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'L''essere che non sarà più'

Riflessione su tempo, cambiamento e morte. [Pierluigi Fagan]

'L''essere che non sarà più'
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15 Giugno 2015 - 09.24


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di Pierluigi Fagan

Alla base dell’umano abbiamo due imperativi, quello ontologico e quello cognitivo. Sono essi gli unici, veri, imperativi categorici poiché sono di origine bio-evolutiva, ogni parte e l’insieme stesso della sostanza che siamo ne è soggetta. L’imperativo ontologico recita: sii! Secondo Spinoza e non solo, sarebbe un conatus, il conato ad essere. L’imperativo ontologico è condiviso da tutte le cose che sono, siano esse biologiche (vegetali, animali, umane), siano esse fisiche non biologiche. Mettendo le une e le altre dentro il termine contenitore “cose”, diremmo che le cose tendono ad essere. Cosa poi siano le cose è problema arduo visto che tutte le cose che sono nell’universo materiale mostrano l’ambivalente condizione di essere e di cambiare. Entro certo limiti, si può cambiare e rimanere nell’essere ma oltre un certo limite, il cambiamento fa trapassare l’essere della cosa in un’altra cosa o in altre cose.

Per altri versi, è proprio attraverso il cambiare che l’essere si preserva poiché immerso in un flusso generale (l’universo), che in quanto flusso procede incessantemente dal prima al poi. Se la cosa non cambia, l’attrito tra la posizione statica ed immobile ed il flusso del cambiamento produce danni irreversibili proprio a ciò che voleva essere a dispetto del suo dover cambiare.

Per la cosa quindi, la faccenda si riduce ad una imprecisa legge vaga che dice di cambiare in accordo al cambiamento del flusso generale in cui la cosa è immersa ma non troppo da perdere la sua essenza. Comunque, prima o poi, la perderà e cesserà di essere quella cosa separandosi in materiali (energie) per fare altre cose. In accordo con l’ontologia aristotelica potremmo dire che quindi la cosa (la sostanza) è una forma che organizza una certa materia. Ai tempi dello stagirita non era presente il concetto moderno di energia ma potremmo retroattivamente includerla dicendo che la cosa (la sostanza) si nutre di energia per dare alla propria materia quella certa forma che le dà l’essenza. Questo è il lavoro che fa la cosa per ottemperare al primo imperativo, l’imperativo ontologico: sii!

La cosa è quindi una isola di essere che cambia entro i limiti della propria costituzione per rimanere in essere dentro il flusso generale dell’Essere in perpetuo cambiamento. Comunque, così come ha un punto, nel flusso generale del prima e del poi, prima del quale non era e poi è stata (nascita della cosa), tutte le cose hanno un punto oltre il quale non saranno più (morte della cosa). Che ci risulti, questa è la legge universale di tutte le cose che sono. La morte della cosa è la perdita irreversibile della sua forma sebbene qui il linguaggio non ci aiuti perché, entro certi limiti, è proprio cambiando moderatamente la sua forma che la sostanza si preserva dato che è immersa in un flusso generale di cambiamento.

La condizione umana, all’imperativo ontologico, abbina un secondo imperativo: l’imperativo cognitivo. L’imperativo cognitivo recita: conosci! Cosa significa “conoscere”? Potremmo dire che conoscere è portare dentro la cosa informazione che prima non c’era ma la faccenda è più complicata. Esiste infatti un livello di informazione che la cosa ha di se stessa, diciamo così implicitamente, per il solo fatto di essere. Sia le cose biologiche che quelle fisiche (anche quelle biologiche ovviamente sono fisiche ma in una diversa forma rispetto a quelle non biologiche), hanno continuamente una non cosciente gestione dell’informazione interna per il solo fatto di essere.

Esiste poi un secondo livello che si divide in due: nel primo, le cose non biologiche assumono informazione esterna alla sempre implicitamente mentre nel secondo, per le cose biologiche, questa assunzione è esplicita. L’essere della cosa, poiché è sempre immerso nel flusso generale del prima e del poi, ha proprio come problema prendere informazione di cosa succede al suo esterno per ragguagliare il suo senso interno.

Le cose quindi conoscono ciò in cui sono immerse costantemente, le cose biologiche svolgono questa funzione con ciò che possiamo dire “coscienza” che è la sommatoria maggiore delle sue parti in cui confluiscono i sensi. La coscienza dell’essere una cosa biologica si nutre di conoscenza, implicita per quanto attiene gli stati interni, esplicita per quanto attiene quelli esterni. Gli umani in cosa differiscono tanto da meritarsi un termine categoriale a sé? Gli umani sono cose biologiche dotate di coscienza riflessiva o di secondo grado ovvero coscienza della coscienza. Per l’umano, quindi, l’imperativo cognitivo significa avere conoscenza della propria conoscenza.

Perché l’umano è dotato di questo senso cognitivo precipuo? E’ un caso evolutivo. La specie si è evoluta tramite questa specialità, un trattamento riflessivo di quella conoscenza che per altro condivide con tutte le altre cose biologiche ed a un certo livello anche con quelle non biologiche.

L’imperativo cognitivo quindi non è una proprietà esclusiva dell’umano ma nell’umano prende un senso particolare per via della struttura auto-coscienziale propria della specie, struttura formatasi per ragioni evolutive. Meno veloce del ghepardo, meno forte del rinoceronte, meno armato di un felino o di un coccodrillo, meno difeso di una tartaruga, meno agile di una gazzella, meno mimetico di un rettile, meno ipervedente di molti altri animali o iperudente di altri, meno in molte altre specialità, l’umano ha basato tutta la sua strategia adattativa al flusso del prima e del poi, su questa facoltà di trattenere e riflettere sulla conoscenza che riesce ad ottenere, in prima istanza, dai sensi.

Questa riflessione, moltiplica la conoscenza ottenuta dai sensi tant’è che questi stessi, non sono affinati in prestazioni come accade nelle altre varie specie. Più sviluppiamo facoltà auto-cosciente, più perdiamo in affinamento sensoriale. In molti casi quindi, il flusso informativo dall’esterno è nell’umano anche inferiore a quello di altre specie ma quel meno viene moltiplicato geometricamente dalla riflessione che opera tanto sul flusso in entrata, quanto su ciò che è stato stoccato nelle memorie.

L’imperativo cognitivo umano quindi è in certo senso la risposta adattativa ed evolutiva a quello ontologico. Per l’umano, sii! si ottempera conoscendo riflessivamente. Iniziato con una bassa riflessione, l’essere degli umani contava poche centinaia di unità sparse in una area contenuta dell’Africa centro-orientale e durava poche decine di anni solari. Dopo qualche milione di anni, oggi conta più di sette miliardi di unità sparse su tutte le aree planetarie e dura mediamente più decine di anni.

Nel caso degli umani occidentali e di certi asiatici, si è arrivati a medie di otto decenni con punte che arrivano a gli undici ed in qualche caso anche a dodici. La longevità è un valore implicito dell’imperativo ontologico la cui conoscenza riflessiva, per l’umano, diventa: “sii il più a lungo possibile”. Tale formulazione è implicita anche per le altre cose, biologiche e non, nel senso del conatus spinoziano ma nell’umano diventa esplicita poiché assunta riflessivamente. Altresì, riflessivamente, si aggiunge una postilla: “sii, il più a lungo – ed al meglio – possibile”. Ovviamente anche tutte le altre cose biologiche tendono a stare al loro meglio ossia provando quanto più piacere e quanto meno dispiacere è loro possibile, è proprio dell’essere tendere a provare quanto più piacere dell’essere gli è possibile ma, di nuovo, la conoscenza riflessiva dà all’umano un sapore diverso di questa ricerca del piacere che per altri versi è anche o a volte, principalmente, evitazione del dispiacere.

Capita così di giungere a notare che la natura delle cose, dell’umano più di altre poiché posto ad un livello di complessità maggiore, ha molto ordine ma a volte, anche qualche disordine. Per disordine si può intendere anche la contraddizione, due sensi coesistenti che vanno l’uno in senso opposto all’altro con eguale legittimità e forza. Infatti, la cognizione riflessiva umana porta a conoscere preventivamente la propria morte creando una dissonanza cognitiva. Questo è infatti, in flagrante contraddizione con l’imperativo ontologico, sappiamo che prima o poi falliremo e non saremo più. L’umano quindi, è probabilmente l’unico essere che sa che prima o poi, non sarà più e lo sa tramite la funzione cognitiva, la funzione che si è evoluta per farlo essere il più a lungo ed al meglio possibile.

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Infografica: Giorgio de Chirico, Trovatore (part.), 1960.

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