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Il mito della conflittualità psichica

Se un conflitto fra istanze psichiche prende il posto del conflitto fra agenti sociali il richiamo alla mobilitazione cede il posto alla depressione. [Sandro Vero]

Il mito della conflittualità psichica
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3 Ottobre 2018 - 09.44


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di Sandro Vero

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La questione apparentemente oggettiva – si potrebbe dire “topologica” – di individuare e precisare spazi diversi, e diverse collocazioni su un piano ontologico, fra un “dentro” e un “fuori” del soggetto, in realtà presuppone, come sua nozione genetica e come cardine concettuale, l’idea di un “individuo”, unico, dotato di una storia ma anche di una comunanza rispetto alla sua specie, portatore di istanze proprie, presenza agente, soggetto dotato di una consistenza materica densa.

L’individuo, così statuito e così fondato, è il perno su cui ruota la metafisica del “dentro”: un’interiorità che si presta ad essere narrata come uno spazio autonomo, bastante, provvisto di elementi e struttura, una realtà sistematica in miniatura che compete, in quanto a complessità, con la natura sistematica di un “fuori” che lo continua, lo integra, lo determina.

Per fare agire i meccanismi utili al conseguimento di precise finalità manipolative occorre predisporre il soggetto in una maniera acconcia, una modalità che richiede una certa determinata configurazione dell’insieme soggetto/mondo.

Se la determinazione reale è quella che va dal mondo al soggetto – poniamo: un preciso rapporto di potere, fra una classe che detiene il controllo della ricchezza sociale e una classe che non lo detiene, induce i membri della seconda a sviluppare una tendenza a formare aggregazioni sempre più organizzate al fine di ridurre il controllo dei membri della prima – diventa indispensabile, per il mantenimento e l’accrescimento dello status quo (vantaggioso per chi detiene il controllo) spezzare tale determinazione, interromperne la narrazione, modificarne il senso, capovolgerlo.

Fa così la sua comparsa sulla scena un flusso ideologico in cui il soggetto determina il mondo, quanto meno il suo mondo, lo causa, assumendosene ogni responsabilità. Consegnando il soggetto medesimo al suo destino etico, alla sua diretta potestà sui bisogni.

Ciò permette esiti vistosamente funzionali: una pressione indicibile, che grava sul soggetto, da parte del contesto sociale che gli richiede di mobilitarsi per promuovere la sua condizione, emanciparla dal giogo che lo trattiene, lo limita, quella pressione viene risolta e riconvertita in un movimento interno al soggetto. Diviene cioè un fatto privato, ascrivibile al novero delle vicende personali: una parte desiderante del soggetto che si scontra con una parte censoria, un conflitto fra istanze psichiche prende il posto del conflitto fra agenti sociali, una tensione interiore rimpiazza con efficacia la tensione fra competitors in una dimensione sociale e politica. 

Il richiamo alla mobilitazione cede il posto alla depressione.

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L’operazione si dispone su due livelli complementari:

a) un livello delle cose quotidiane, in cui il soggetto – divenuto nel frattempo “individuo” – è seguito, accompagnato, braccato nella microfisica di una strategia costante di captazione. La finalità è quella di completare il passaggio ontologico dal “soggetto” all’ “individuo” e da questo al “consumatore”, vale a dire il passaggio da una realtà disomogenea, recalcitrante, distintiva a una realtà sempre più omogenea in cui non è più possibile distinguere ciò che il soggetto (individuo) vuole da ciò che deve

b) un livello astratto, concettuale, che fornisca costantemente uno sfondo di riferimento, un orizzonte culturale dentro il quale collocare i propri valori, le aspettative, i metri di giudizio. Il mondo che esiste per l’individuo, marcato nei suoi confini e nelle dinamiche valoriali che lo muovono.

Nel primo livello, che diremo del paradigma pubblicitario, ogni bisogno/desiderio è soddisfacibile immediatamente grazie a una capillare trama di offerta e di micro-credito relativo: l’individuo si radica sul registro della promozione di sé attraverso gli oggetti che riesce a possedere.

Nel secondo livello, ogni discorso è perimetrato e calibrato sui riferimenti assiologici che agiscono sullo sfondo: l’individuo pensa e decide solo entro quel perimetro, giacché il pensiero e i discorsi sono e possono essere solo quelli possibili dentro quello che diremo il paradigma individuale.

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La nozione di psiche appartiene alla tradizione del pensiero occidentale. É una nozione antica – si potrebbe dire arcaica – dell’occidente, che sta a fondamento della sua cultura e che ne ha segnato lo sviluppo, specie nella direzione del cosiddetto dualismo – mente e corpo, spirito e materia, infinito e finito – fino alla sua crisi attuale.

L’elemento centrale della problematicità di tale nozione, considerando gli intricati sviluppi che essa ha avuto nel corso dei secoli, è il concetto di “struttura”, che non a caso nella seconda metà del ‘900, nel pieno fulgore dello strutturalismo, portò ad una severa critica del concetto stesso di “uomo”, critica che arrivò perfino a proporre lo scioglimento di quest’ultimo.

Se la psiche è dotata di struttura, se ha un’articolazione interna, se il suo stesso funzionamento è determinato dal modo in cui interagiscono le sue parti componenti, allora si pongono almeno due questioni:

a) questa struttura è autonoma rispetto al mondo esterno, vale a dire non ne riproduce in alcun modo altra configurazione che gli appartenga o, viceversa, c’è continuità (strutturale) fra psiche e mondo?

b) il possesso di una struttura è di per sé una condizione sufficiente (oltre che, ovviamente, necessaria) per considerare l’ente che la possiede una realtà autonoma, individuata, autosufficiente? In grado, peraltro, di assurgere al rango di oggetto autonomo di conoscenza?

La domanda che qui si pone è, in definitiva, se il carattere strutturato della psiche, la sua articolazione interna e il rapporto dinamico fra le sue parti la definiscono come un’entità descrivibile, analizzabile, concettualizzabile come entità separata, autonoma, auto-bastante.

La risposta che tenteremo di dare, nel corso di questo capitolo, è che la nozione di psiche, originariamente ritagliata dalla realtà in cui è immersa (naturale, sociale, fisica) come agglomerato di funzioni (psichiche appunto), è andata via via caricandosi di una diversa connotazione ontologica, assurgendo a ipostasi, finendo cioè per rappresentare una realtà separata, duale (fisica e non fisica), contraddittoria.

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Nella storia della psicologia, percorrendola a partire dalla fondazione della stessa come disciplina “scientifica”, gli avvicendamenti fra le teorie funzionaliste e quelle sostanzialiste stanno lì a dimostrare che la coscienza epistemologica della scienza psicologica ha conservato un aggancio insopprimibile con la nozione originaria, già presente nel contesto della filosofia greca, della mente come rete di funzioni, oggi diremmo stazione di passaggio e di elaborazione di processi energetici e informativi fra l’ambiente e l’organismo, piuttosto lontana dal carattere di sostanzialità che avrebbe invece assunto – per fare un esempio alquanto cogente – nella psicoanalisi freudiana.

Parlare di funzioni comporta un inevitabile riferimento connotativo al significato che questo termine ha assunto nel contesto dello strutturalismo: le strutture sono dalla parte del sistema e richiamano un punto di vista che si dirà “sincronico”; le funzioni sono dalla parte dei processi e richiamano un punto di vista che si dirà “diacronico”.

Le strutture si dispongono lungo l’asse paradigmatico – le cosiddette “invarianti” – mentre le funzioni si dispongono lungo l’asse sintagmatico, quello delle “varianti”.

In realtà la struttura permea di sé anche l’asse dei sintagmi, poiché cos’altro è il rapporto fra i sintagmi all’interno di un contesto dato se non un rapporto strutturale?

E così, nonostante anche lo strutturalismo, che pure ha messo l’accento sulla struttura, ha dovuto recuperare una nozione altrimenti tagliata fuori, quella appunto di “funzione”, la struttura, temporaneamente accompagnata fuori dalla porta, si è ripresentata alla finestra.

La concezione “funzionalista” della psicologia, pre-strutturalista, si riconnette invece direttamente alla teoria classica della mente come emergenza ontologica, snodo operativo del rapporto fra organismo e ambiente. In altre parole, la mente come metafora, che si scioglie nella considerazione della continuità fra realtà e organismo, fra mondo e soggetto.

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La statuizione ontologica della psiche come entità separata, strutturata, auto-funzionante, è la condizione fondamentale per pensare a una qualche forma di dinamica psichica – per l’esattezza, nella formula giusta, intra-psichica – che ammetta poi, come uno dei suoi stati, quello della conflittualità.

È abbastanza evidente come, qualora la condizione dovesse cadere, in assenza di una dinamica intra-psichica non sarebbe possibile, appunto come sua particolare declinazione, una qualsivoglia forma di conflittualità. Beninteso: fra le parti costituenti di quell’entità separata, strutturata, auto-funzionante che è la mente.

Tutto ciò potrebbe apparire come tautologico, come una sorta di pronunciamento apodittico: se vale la condizione della psiche come ente separato, allora si può ammettere una sua dinamica interna; se, viceversa, quella condizione non vale, cade ogni ipotesi di dinamica psichica, e con essa il postulato della conflittualità intra-psichica.

La tautologia apparente è facilmente spiegabile: qualunque forma “dinamica” possa assumere il funzionamento di un sistema biologico, la particolare declinazione di tale forma che diciamo “conflittuale” non ha un senso proprio che le derivi da un assetto funzionale, da un principio organizzativo interno. Il sistema fa parte di un sistema più ampio, che comprende il primo, e le parti interne di quest’ultimo sono regolate, amministrate dal rapporto fra i due livelli, e dunque dall’essere il sistema contenuto una delle parti del sistema contenente. E così via sia nel senso ascendente che in quello discendente.

Se la considerazione precedente è trasportata dall’ambito dei sistemi e dei processi biologici a quello dei sistemi e dei processi sociali non cambia la ragione della sua applicabilità: il soggetto pensa e agisce solo all’interno di un contesto linguistico, culturale, sociale che ne determina motivazioni, bisogni, teorie. Non c’è alcuna dimensione intrapsichica “conflittuale” che non sia in realtà fatta interamente di scambi con l’ambiente, della cui eventuale conflittualità l’intrapsichico rispecchia, riproduce, traduce le diverse configurazioni.

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L’”uomo”, nell’accezione proposta da Foucault, ha fatto la sua comparsa soltanto qualche secolo fa, all’interno di una configurazione storica e culturale che lo stesso autore definisce come la rottura di uno schema epistemico:

«Stranamente, l’uomo – la conoscenza del quale passa per pochi ingenui come la più antica indagine da Socrate in poi – non è probabilmente altro che una certa lacerazione dell’ordine delle cose, una configurazione, comunque tracciata dalla disposizione nuova che egli ha recentemente assunto nel sapere. Sono nate di qui tutte le chimere dei nuovi umanesimi, tutte le facilità di un’”antropologia” intesa come riflessione generale, semipositiva, semifilosofica sull’uomo. Conforta tuttavia e tranquillizza profondamente, pensare che l’uomo non è che un’invenzione recente, una figura che non ha nemmeno due secoli, una semplice piega nel nostro sapere, e che sparirà non appena questo avrà trovato una nuova forma». 

La conclusione tuttavia non lascia spazio a un grande ottimismo:

«Se tali disposizioni dovessero sparire come sono apparse, se, a seguito di qualche evento di cui possiamo tutt’al più presentire la possibilità ma di cui non conosciamo per ora né la forma né la promessa, precipitassero, come al volgersi del XVIII secolo accadde per il suolo del pensiero classico, possiamo senz’altro scommettere che l’uomo sarebbe cancellato, come sull’orlo del mare un volto di sabbia».

L’anti-umanesimo di Foucault non è qui il punto centrale. Che invece è il concetto della storicità, e dunque della natura transiente, della costellazione di nozioni ruotante intorno all’idea dell’individuo, quest’ultima nient’affatto neutra bensì impregnata di tali umori ideologici da farne la chiave di volta dell’intera narrazione di cui si serve il capitalismo per riaffermare la sua “naturalità”, e dunque la sua superiorità.

Tutto si gioca in questo punto di passaggio che separa ma anche unisce il dentro e il fuori. Se c’è un dentro, e questo basta per aver trovato una realtà consistente, oggettuale, allora tale dentro si staglierà – come una figura sul suo sfondo – in rapporto a un fuori che lo cinge, lo circonda, contribuisce ad accrescere il suo senso, ma non lo determina, non lo causa.

Certo, esiste un filone ambientalista della psicologia che riconsegna al fuori un peso, una funzione. E tuttavia, si tratta di un “ambiente” che soggiace al primato dell’elaborazione psichica, e che svolge in rapporto a questa una mera funzione di stimolo. Non si tratta, né mai potrebbe, di un fuori che si riprende il posto in un continuo ontologico in cui il dentro è riconsegnato al senso metaforico e dunque alla definitiva scomparsa di una dualità – dentro/fuori, mente/corpo, soggetto/mondo, Io/Non-Io – che finisce sempre per trasformarsi in una gerarchia ontologica.

 

Immagine di copertina © Wiesław Wałkuski

 

 

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