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Il femminismo che si fece ancella del capitalismo

Ho cominciato a temere che gli ideali cui le femministe hanno aperto la strada vengano utilizzati per scopi diversi, in nuove forme di disuguaglianza e sfruttamento.

Il femminismo che si fece ancella del capitalismo
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1 Novembre 2013 - 02.30


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di Nancy Fraser.

Come
femminista ho sempre pensato che, combattendo per l’emancipazione delle
donne, stavo anche costruendo un mondo migliore – più egualitario, più
giusto, più libero. Ultimamente ho cominciato a temere che gli ideali ai
quali le femministe hanno aperto la strada vengano utilizzati per scopi
molto diversi. Mi preoccupa, in particolare, che la nostra critica del
sessismo fornisca oggi giustificazione a nuove forme di disuguaglianza e
di sfruttamento.

Quasi fosse un crudele scherzo del destino, il
movimento per la liberazione delle donne sembra essersi avviluppato in
una relazione pericolosa con gli sforzi neoliberisti nel costruire la
società del libero mercato. Questo potrebbe spiegare perché una serie di
idee femministe, che un tempo facevano parte di una visione del mondo
radicale, oggi vengono utilizzate a fini individualistici. In passato,
le femministe criticavano una società dove si promuoveva il carrierismo,
adesso viene consigliato alle donne di “affidarsi”. Il movimento delle
donne una volta aveva come priorità la solidarietà sociale, oggi
festeggia le imprenditrici. La prospettiva di allora valorizzava la
“cura” e l’interdipendenza umana, ora incoraggia il progresso
individuale e la meritocrazia.

Ciò che si nasconde dietro tutto
questo è un cambiamento di rotta del paradigma capitalista. Il
capitalismo stato-assistito del dopoguerra ha lasciato il posto a una
forma innovativa di capitalismo, “disorganizzato”, globalizzato,
neoliberista. La seconda ondata del femminismo è emersa come critica al
capitalismo di prima maniera, ma infine è diventata ancella del
capitalismo contemporaneo.

Con il senno di poi, possiamo
sostenere che il movimento di liberazione delle donne ha
contemporaneamente puntato a due diversi futuri possibili. In un primo
scenario, esso ha disegnato un mondo in cui l’emancipazione di genere
andava di pari passo con la democrazia partecipativa e la solidarietà
sociale; nel secondo , ha promesso nuove forme di liberalismo, in grado
di garantire alle donne, così come agli uomini, i “beni” dell’autonomia
individuale, un ampliamento delle scelte , l’avanzamento meritocratico.
Il femminismo di “seconda generazione” è stato, insomma, ambiguo in
questo senso. Compatibile con entrambe le rappresentazioni della
società, dunque suscettibile di due diverse concezioni della storia.

A
mio parere, questa ambivalenza del femminismo in questi ultimi anni si è
risolta a favore della seconda impostazione, quella
liberista-individualista. Ma non perché noi donne siamo state vittime
passive di seduzioni neoliberiste. Al contrario, noi stesse abbiamo
direttamente contribuito a far raggiungere al capitalismo questo stadio
di sviluppo attraverso tre blocchi di idee importanti.

Il primo
contributo è rappresentato dalla nostra critica al “salario familiare”:
il modello del maschio breadwinner e della femmina casalinga è stato
centrale per il capitalismo stato-assistito, così per come esso era
organizzato. La critica femminista a quel modello ora aiuta a
legittimare il “capitalismo flessibile”. Questa nuova forma
organizzativa del capitale contemporaneo si basa molto sul lavoro
femminile salariato, soprattutto a basso costo, nei servizi e nella
manifattura , garantito non solo da giovani donne single, ma anche da
donne sposate e donne con figli; non solo da donne razzializzate, ma da
donne di tutte le nazionalità ed etnie. Le donne si sono riversate nel
mercato del lavoro globalizzato e il modello del capitalismo
stato-assistito basato sul “salario familiare” è stato sostituito da una
nuova e più moderna “norma” – apparentemente approvata dal femminismo:
quella di una famiglia con due percettori di reddito.

Non importa
che la realtà che sta alla base di questo nuovo paradigma sia il basso
livello dei salariali, la riduzione della sicurezza del lavoro, il
peggioramento degli standard di vita, un forte aumento del numero delle
ore lavorate per garantire un reddito al ménage, l’allargamento di doppi
– quando non tripli o quadrupli – ruoli e un aumento della povertà ,
sempre più concentrata sulle donne capofamiglia. Il neoliberismo
trasforma un orecchio di scrofa in una borsa di seta, raccontandoci una
storia di empowerment femminile. Si appella alla critica femminista del
“salario familiare” per giustificare lo sfruttamento: sfrutta il sogno
dell’emancipazione femminile come motore dell’accumulazione
capitalistica.

Il femminismo ha anche fornito un secondo
contributo all’ethos neoliberale. Nell’era del capitalismo di stato
organizzato, abbiamo giustamente criticato una visione politica
ristretta, così intensamente centrata sulla disuguaglianza di classe che
non vi trovavano posto le ingiustizie “non economiche”, come per
esempio la violenza domestica, la violenza sessuale e l’oppressione
riproduttiva. Rifiutando l’economicismo e politicizzando “il personale”,
le femministe hanno ampliato l’agenda politica generale, aggiungendo a
essa il tema della costruzione gerarchica della differenza di genere. Il
risultato avrebbe dovuto essere quello di espandere la lotta per la
giustizia sociale, comprendendo sia gli elementi culturali che
economici. Il risultato effettivo è stato invece una concentrazione
estrema del femminismo sul tema dell’“identità di genere”, a scapito
delle questioni che hanno a che vedere con il pane e con il burro.
Vediamola peggio ancora: la svolta femminista verso una politica
identitaria si è alleata fin troppo strettamente con un neoliberismo in
crescita che non desiderava altro che reprimere ogni ricordo delle
battaglie per l’uguaglianza sociale. In effetti, abbiamo assolutizzato
la critica del sessismo culturale proprio nel momento in cui le
circostanze avrebbero richiesto di raddoppiare l’attenzione intorno alla
critica dell’economia politica.

Infine, il femminismo ha
contribuito al neoliberismo con un terzo filone di pensiero: la critica
al paternalismo dello stato sociale. Innegabilmente progressista
nell’epoca del capitalismo di stato fordista, il giudizio negativo del
femminismo è coinciso con la guerra del neoliberismo contro “lo stato
balia” e i suoi più recenti cinici abbracci con le Ong. Un esempio
significativo è rappresentato dal “microcredito”, il programma di
piccoli prestiti bancari per le donne povere nel sud del mondo.
Propagandato come un processo di potenziamento dal basso verso l’alto,
alternativo a decisioni di vertice e alla burocrazia dei progetti
statali, il microcredito è stato presentato come uno degli antidoti
femministi alla povertà e alla sottomissione delle donne. In questo, ciò
che è mancato è la consapevolezza di un’ulteriore coincidenza
inquietante: il microcredito è fiorito proprio nel momento in cui gli
stati abbandonavano gli impegni macro-strutturali per combattere la
povertà, impegni che i prestiti su piccola scala non possono
assolutamente sostituire. Anche in questo caso, quindi, l’ideale
femminista è stato ripreso dal neoliberismo. Una prospettiva
originariamente finalizzata a democratizzare lo stato,
responsabilizzando i cittadini, viene impiegata ora per legittimare la
mercificazione e il disgregarsi dello stato sociale.

In tutti
questi casi, l’ambivalenza del femminismo si è risolta a favore di un
(neo)individualismo liberista. Ma certamente l’altro lato di noi, cioè
le prospettive rappresentate dal femminismo solidale, potrebbe essere
ancora in vita. La crisi attuale offre la possibilità di ampliare ancora
di più quell’impostazione, ricollegando il sogno di liberazione della
donna con la visione di una società solidale. A tal fine, le femministe
hanno bisogno di rompere la relazione pericolosa con il neoliberismo,
recuperando ai propri fini i tre “contributi” di cui abbiamo parlato.

In
primo luogo, si dovrebbe rompere il falso legame tra la nostra critica
al “salario familiare” e ciò che sono diventati gli attuali approdi del
capitalismo del lavoro precario, combattendo per una forma di vita che
non metta al centro il lavoro di scambio ma valorizzi le attività che
producono valore d’uso, tra cui – ma non solo – il lavoro di cura. In
secondo luogo, dovremmo fermare lo scivolamento della critica
all’economicismo verso una politica identitaria, implementando la lotta
per trasformare l’ordine del discorso fondato su valori culturali
patriarcali con la lotta per la giustizia economica. Infine, sarebbe
necessario recidere il legame tra la critica alla statalizzazione e al
fondamentalismo del libero mercato, recuperando il concetto di
democrazia partecipativa come un mezzo per rafforzare i poteri pubblici
necessari a vincolare il capitale a finalità di giustizia.

Fonte: [url”http://www.theguardian.com/commentisfree/2013/oct/14/feminism-capitalist-handmaiden-neoliberal”]http://www.theguardian.com/commentisfree/2013/oct/14/feminism-capitalist-handmaiden-neoliberal[/url],

Traduzione da quaderni.sanprecario.info.

Tratto da: http://temi.repubblica.it/micromega-online/come-il-femminismo-divenne-ancella-del-capitalismo/.

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